A Triumph short story

«. . . guidare questa macchina era tutta questione di muscoli.»

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La storia della Triumph inizia con un giovane di nome Siegfried Bettmann.
Figlio di ebrei e nato in Germania, arrivò a Londra intorno al 1880 per fare fortuna.

Triumph-History first years

La Gran Bretagna in quel periodo era presa dalla passione per le biciclette, pensò quindi di trasferirsi a Coventry dove si costruiva la maggior parte delle biciclette e mettersi in quel genere di business.
20 anni dopo la Triumph aveva trasformato le biciclette in moto.
Fu solo dopo la prima guerra mondiale che la Triumph cominciò ad occuparsi di macchine e il primo prototipo risale al Modello 1020, ma la prima Triumph realizzata in quantitativi industriali fu una piccola macchina chiamata Super Seven.

Fu venduta a decine di migliaia e sulla scia di questo successo, durante gli anni ’30, la Triumph iniziò a costruire automobili molto più eleganti e sportive, in concorrenza con le Riley e le SS Jaguar dell’epoca.
Una di quelle di maggior successo fu la Triumph Dolomite Roadster del 1938. Credo che fosse indirizzata a un tipo di persona molto diversa dal profilo di “padre di famiglia”, perché si trattava effettivamente di una macchina a due posti; il target era lo “yuppie” dei giorni nostri, se così si può dire, anche se allora probabilmente non esisteva una definizione simile.

Guidare questa macchina, se paragonata alle macchine moderne, era faticoso senza il servofreno e senza il servosterzo. La Roadster Coupé, 6 cilindri per 75 cavalli, con un’accelerazione da 0 a 60 miglia orarie in 23 secondi, era tutto un lavoro di muscoli. Il suo design fu a suo tempo al centro di una controversia nella stampa automobilistica, perché si accusava la Triumph di aver rubato lo stile della griglia dal design dell’americana Buick.

« Il fascino di questa macchina per me è un po’ romantico » – ricorda Alan Davies – « perché il mio medico, quando ero piccolo, durante la seconda guerra mondiale, aveva una Dolomite e la ricordo vividamente quando andavo dal medico con mia madre o passavamo davanti allo studio per andare a fare spese. C’era questa Dolomite parcheggiata lì ed ero sempre affascinato quando guardavo dentro nel vedere che il tachimetro arrivava a cento miglia l’ora.
Per un ragazzino di sette o otto anni era inimmaginabile. Viaggiare a cento miglia orarie!
»

« Quando ho deciso di entrare nel mondo delle auto d’epoca dieci anni fa, la prima impresa ad attirarmi è stato tornare alla Dolomite.
Alla gente piace vedere qualcosa di bello e quando mi fermo per fare benzina, quasi sempre qualcuno si avvicina per chiedere “Che cos’è? Quanti anni ha?” e poi “Quanto vale?”
»
La Roadster prende posto nella storia della Triumph come una specie di “cattedrale nel deserto”.
Fu introdotta per cercare di ringiovanire un’azienda in crisi, ma probabilmente si trattò della campana a morto.
Al modico prezzo di 450 sterline, valore anche allora di gran lunga sottostimato, Triumph invece che guadagnare perdeva soldi ogni volta che ne producevano una.
In breve tempo questo accelerò il declino della ditta, portandola alla fine alla bancarotta.

Graham Robson, storico della Triumph, ricorda che « . . . poi la banca disse basta e inviò il curatore fallimentare.
Entrò allora nella storia della Triumph un magnate degli anni ’30: Sir John Black. Black era stato direttore generale della Standard e alla fine del 1944 comprò ciò che rimaneva della Triumph; decise di cominciar a produrre le Triumph come una versione signorile del marchio Standard
. »

Dal 1946, quando sono uscite le prime Triumph del dopoguerra, si trattava di ciò che gli ‘addetti ai lavori’ chiamano Standard Triumph. La Roadster era un pastiche della Dolomite Roadster dell’anteguerra.
Sir Black – visto il successo che aveva avuto la MG all’estero nel produrre auto sportive per il mercato americano – tentò di fare altrettanto. Tentò inizialmente di comprare la Morgan, ma non fu affatto facile, perché l’azienda era controllato da un solo uomo – Mister Morgan per l’appunto – che presto decise che non gli piaceva affatto l’idea di essere rilevato.
Abbandonata ogni speranza di acquisizione di un’azienda già presente nel mercato e che avrebbe potuto quindi aprire le porte degli Stati Uniti ai suoi nuovi modelli, Black tornò in Gran Bretagna dai suoi progettisti e disse:
Vedete la MG? Voglio una macchina che sia meglio di quella, una macchina sportiva da mandare in America e avete quattro mesi per farla!“.

La TR2 come la conosciamo oggi è stata concepita in fretta e furia nel 1952.

La sportiva TR2 è balzata alla celebrità nel miglio misurato sull’autostrada belga del Jabbeke, coprendo la distanza all’incredibile velocità di 124 miglia orarie.
L’ex pilota da corsa Ken Richardson provò la macchina davanti alla stampa automobilistica internazionale e agli esperti di tutto il mondo che assistettero alla nascita di una nuova linea di Triumph di successo.

John Black sapeva benissimo cosa faceva quando decise di riempire quel vuoto di mercato, una nicchia economica tra le Jaguar in alto e le MG più in basso. In particolare voleva aumentare il valore di gamma delle Triumph in generale.
La reputazione della TR2 si fondava sul fatto che sembrava del tutto indistruttibile; potevi usarla nei rally, nelle corse, sulle strade. Era, sotto tutti gli aspetti, un vero affare.
Le prime TR erano in concorrenza con la MG, la MG-A soprattutto.
Molto diversa da vedere, la MG era quasi tutta curve convesse, mentre la TR aveva un aspetto rude; aveva alcuni contorni tondi, ma era anche molta lineare, e creò scalpore al Motor Show del 1956 per essere la prima macchina prodotta in serie con freni a disco.

Giovanni-Michelotti, Triumph Story TR Register Italy

Quando Harry Webster, capo progettista Triumph, scoprì il giovane progettista italiano Michelotti, riconobbe subito un talento in ascesa.
Di conseguenza, gli fu commissionato di disegnare la carrozzeria del modello successivo, quello che è diventato la TR4, poi la 4 e dopo ancora la TR5. Il suo era uno stile molto più quadrato, che aveva tracce residue di “pinne”, elementi molto popolari a quel tempo. Delle 2.500 4A vendute – introdotte nel 1961 e diventate subito un successo – solo 10 furono comprate nel Regno Unito. La TR4A fu invece lanciata solo nel 1965 e rispetto alla A4 presentava solo minimi cambiamenti nella carrozzeria.

« Devo ammetterlo » – dice Ian Evans – « non la definirei bella. Possiedo anch’io una TR4A e penso che sia una macchina attraente, ma non bella. Forte, dura, robusta, maschia, peli sul petto; questo è il genere di aggettivo che le TR tendono ad attirare. »
D’altra parte anche la pubblicità del tempo faceva leva sul carattere “macho”: « La Triumph TR4A ti fa capire cosa vuole dire veramente una macchina sportiva. Grossa potenza, quattro marce, freni a disco, sedili anatomici. Si vive solo una volta nella vita – fate che sia un… TRionfo! »

Tuttavia le TR5 non si riusciva a venderle, perché non avevano un aspetto che le differenziasse completamente dalle precedenti, più lente 4 e 4A.
Michelotti era troppo impegnato con il suo lavoro, quindi hanno commissionato a Karmann in Germania un design per far sembrare diversa la stessa macchina, con la minore spesa possibile. Lui ha creato ciò che io ritengo un capolavoro: la TR6.

La TR6 – che è in pratica una TR4A e 5 con una carrozzeria diversa – era il tentativo di vendere una macchina sportiva divenuta molto, molto veloce. Mi ricordo che esprimevano 150 cavalli, viaggiavano a 125 miglia l’ora, non erano costose come le Jaguar ed erano più veloci delle MG.
La Triumph TR6 fu lanciata nel 1968 munita di una scocca mirata alla sicurezza, con i braccetti oscillanti incassati e il volante imbottito. Successivamente furono aggiunti paraurti in grado di assorbire l’energia d’urto per soddisfare i requisiti di sicurezza negli USA.
Il fascino delle TR è essenzialmente il fascino della maggior parte delle auto sportive inglesi: sono divertentissime. È divertente guidarle, e divertente possederle.

A metà degli anni ‘50 il nome Triumph era stato di così buon auspicio per la Standard che la ditta decise di dare il nome Triumph anche alla nuovo modello familiare: questa era la macchina che avrebbe cambiato l’immagine della compagnia.
« Grazie alla sospensione completa, le ruote assorbono gli urti mentre voi assorbite la vista. Si può anche cambiare marcia velocemente. »

Quando è arrivato il momento di sostituire le berline Standard 8 e Standard 10 verso la fine degli anni ‘50, la Standard Triumph aveva dei grossi problemi con le forniture della carrozzeria. Alla fine, hanno preso la grande decisione di usare telaio separato e carrozzeria composta di diverse sezioni; ma il disegno della macchina era difficile.

Il capotecnico Harry Webster andò dal suo consulente italiano Giovanni Michelotti, in Italia, e gli disse: “Se avessi mano libera, che forma vorresti vedere?”.
In un solo pomeriggio a Torino Michelotti e Webster insieme disegnarono la Herald a grandezza reale ed è la stessa Herald che possiamo vedere ancora oggi.
Dato che la carrozzeria veniva costruita in sezioni, si trattava di una progettazione multiuso – in grado cioè di soddisfare diverse versioni dello stesso modello – caratteristica che la promozione pubblicitaria non si fece sfuggire: « Ecco la Triumph Herald, l’unica auto nella sua classe con la forza e la sicurezza di un telaio in acciaio. Puoi comprarla decapottabile, station wagon o berlina. »
Nessun’altro del settore in Gran Bretagna sembrava in grado di realizzare questo all’epoca. Harry Webster e il suo team di ingegneri scoprirono presto che potevano anche accorciare l’interasse e chiedere così a Michelotti di creare un bellissimo stile sportivo da metterci sopra.

Da una singola buona idea è evoluta, per così dire, un’intera famiglia di automobili per gli anni sessanta.
La Herald era il modello familiare con motore a quattro cilindri; poi c’era la versione con telaio più corto
sempre a quattro cilindri, diventata la Spitfire, e da questa è arrivata la Vitesse, che in pratica era la stessa Herald con un motore a sei cilindri inserito a fatica sotto sotto il cofano.

Successivamente, inserito il motore a sei cilindri dentro la carrozzeria Spitfire, fu aggiunto anche una capote e… voilà! Ecco la GT6.
Queste macchine, le Herald e le Spitfire, erano tecnicamente molto avanzate.
Avevano le sospensioni indipendenti e avevano un diametro di sterzata fenomenale. Non solo, ma tutto l’anteriore – il cofano, le parti laterali, l’arco della ruota – tutto l’anteriore poteva essere sollevato insieme permettendo l’accesso in modo perfetto. Nessun’altra macchina poteva eguagliarla. Per Andrew Swift, storico del marketing automobilistico, la manutenzione era talmente semplice che poteva essere rappresentata da un ragazzino di circa quattro anni con una pompetta di lubrificazione.

Gli interni spaziosi erano rappresentati da una lunga fila di persone che stavano per salirci, quindi se compravi una Herald compravi qualcosa di diverso e distintivo e compravi anche qualcosa che ti avrebbe fatto divertire senza una spesa eccessiva.
L’originale Herald berlina costava 495 sterline nel 1959. La più prestigiosa della serie, la Mk II Vitesse, nel 1970 ne costava 865. Complessivamente la gamma Herald ha venduto grandi quantitativi, con un picco di oltre 52.000 modelli venduti tra il 1963 e il 1964.
La Herald fu la prima Triumph moderna a rendere così di moda questa marca negli anni ‘60, al punto che fece sopprimere il nome “Standard” già a partire dal 1963. Allora la Standard Triumph era stata rilevata dalla Leyland dove il capo era Donald Stokes e la Triumph era assolutamente la sua marca preferita in quel periodo.

Stokes aveva grandi piani per la Triumph. Oggi sappiamo che aveva anche in mente di eguagliare le BMW con nuovi motori e nuovi modelli per catturare ciò che si chiama il mercato di nicchia. Fu così che si cominciò a progettare la Triumph Stag e in particolare nel 1978. In realtà, la comprarono una Mercedes 230SL, la smontatarono completamente per vedere come funzionasse e come fosse costruita; ovviamente volevano usarla come base per la Stag e farla altrettanto bella.

« C’erano dei problemi con il motore » – ricorda Graham Robson. « Era un enorme progetto di sviluppo e certamente i primi 2 o 3 anni la Triumph ha avuto grossi problemi nel rendere il motore affidabile. Le guarnizioni di testa che scoppiavano hanno reso famosa questa macchina. »

All’inizio pensavano di costruire una macchina completamente scoperta, ma a causa delle leggi sulla sicurezza in America decisero di mettere una barra a T, che è un aspetto piuttosto attraente della macchina.
« La mia passione per le Stag è nata quando avevo dodici anni e andavo in giro a pulire le macchine. Con tutte le altre macchine ci mettevo dieci minuti a pulirle, ma quando pulivo una Stag ci mettevo un’ora – lucidavo le cromature, pulivo i tappeti, e… amavo quella macchina. Ha una forma talmente bella e l’amavo talmente tanto che ho giurato che un giorno ne avrei avuta una. »

Purtroppo nei primi anni settanta la macchina aveva un’immagine un po’ logorata.
Infatti, molti playboy, molti parrucchieri avevano questa macchina e per un periodo veniva proprio nominata la macchina dei parrucchieri! Per fortuna adesso sono tutti passati alle fuoristrada… e spero che l’immagine sia tornata ad essere quella bella macchina sportiva guidata da persone normali.

Tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70, fu prodotta tutta una serie di depliant, incluso quello per lanciare la Stag, che erano in realtà libri di racconti. Se compravi una Stag, o guardavi un depliant della Stag, partivi per un viaggio favoloso lasciando dietro le strade grigie della città per le strade aperte e in fine arrivavi a Monaco, Monte Carlo, sul lungomare con il tuo yacht.
La GT6, per esempio, ha una storia tipo gli Avengers. Una ragazza in missione di spionaggio è inseguita da un uomo in bombetta e lungo la strada vengono fermati da vari gendarmi e poliziotti, stile thriller. In un certo senso, se all’epoca compravi una Triumph eri una persona che cercava di evadere dalla realtà, che amava l’avventura e le emozioni.
La Triumph era sempre stata la marca preferita di Lord Stokes, ma poco dopo la nazionalizzazione della Leyland, nel 1975, Lord Stokes si dimise e presto tutta l’atmosfera nell’azienda cambiò.

Negli anni ‘70 la British Leyland studiò attentamente il mercato del Nord America decidendo che dovevano creare una macchina con un carattere completamente diverso da quello della TR6. Il risultato fu la TR7 con la forma a cuneo, con aspetto e carattere molto continentali o, per dirla con il claim pubblicitario del tempo, “TR7, la forma del futuro”. E così fu anche il prezzo di lancio, 4.995 dollari.

Tra gli appassionati TR, chi guidava una TR7 veniva chiamato pilota di cuneo – li chiamiamo “cuneisti” – non necessariamente in segno di denigrazione, ma perché la TR7 aveva un aspetto radicalmente nuovo e attualissimo, diverso da tutti gli altri modelli della Leyland.

Aveva una carrozzeria tutta sua, aveva una fabbrica tutta sua e anche un suo proprio motore. Quindi, mentre continuava il processo di razionalizzazione durante gli anni ’70, i contabili continuavano a guardare il progetto dicendo “Questa macchina sta facendo soldi? Va bene venderne così poche?” Così, all’inizio degli anni ’80, la TR7 è stata ritirata prima ancora di potere stabilire la sua reputazione.
Ciò significa che intorno al 1980 non c’era nessuna nuova Triumph nel mercato.

La British Leyland aveva un nuovo direttore, Sir Michael Edwards. Nel 1979 i suoi progettisti lo convinsero che servisse una nuova berlina di media grandezza. Questa auto, come sappiamo, è sorta da un accordo con la Honda, così l’ultima Triumph in pratica era una Honda.
Si chiamava Triumph Acclaim ed è stata costruita dal 1981 al 1984. Ma non c’è nessun appassionato di Triumph che la considera una vera Triumph, una Triumph tradizionale.

« Se conoscessi il segreto del perché un proprietario ama la sua macchina,
brevetterei quel segreto e farei dei miliardi.
Tutto ciò che posso dire è che la gente sembra amare le Triumph oggi perché sono piene di carattere,
sono divertenti da possedere, sono sportive e in genere sono anche belle.
»

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